Storie

CATINIA (1419) di Sicco Polenton

 

Un “catinius, homo Cumanus”, ossia uno scodellaro ambulante di Como, giunge in un’osteria di Anguillara Veneta, sulla riva dell’Adige, per vendere la propria mercanzia. È questo lo spunto da cui prende l’avvio e il nome la Catinia, scritta nel 1419 da Sicco Polenton, una fabula – come la definisce lui stesso – raccontata da un frate questuante (Questio) che, improvvisandosi unico attore-mimo, riproduce un’esilarante disputa. La vicenda, avvenuta proprio nella stessa osteria diversi anni prima, aveva visto contrapporsi l’oste (Bibio) e il Catinius, il frate (in qualità di arbitro), un pescatore (Cetius) e uno scardassiere (Lanius). Un meta-racconto che ha per protagonisti dei personaggi che sono dei tipi sociali, identificati non con i nomi personali ma con quelli del proprio mestiere, e che è una parodia di quei ceti che cercano la propria affermazione nella gloria delle armi, nel desiderio di denaro e nella vuota pedanteria della scienza puramente accademica. Mentre deride con spensieratezza il mondo del potere cittadino, Sicco Polenton, apre con simpatia uno squarcio su un microcosmo popolare che conosce la sola grammatica del “bibamus, comedamus, gaudeamus”, secondo l’invito che, come un ritornello, apre e sorregge l’intera operetta.

La Catinia è un testo dalle forti caratteristiche comiche e grottesche, difficilmente collocabile in un genere letterario preciso: può essere considerata una commedia, una farsa goliardica, un dialogo giocoso, o meglio una fabula tabernaria, riprendendo proprio una rappresentazione scenica tipica della Roma repubblicana: la Catinia è infatti ambientata in una taverna e ha come personaggi semplici uomini della strada.

Eccone tradotto un breve estratto.

(Lanius) Beviamo compagni, mangiamo, godiamocela! Vi garantisco che di tutte le cose al mondo niente meglio di questa va incontro alle esigenze umane. Tutto il resto infatti ci sfugge, ma sappia ognuno che questo è proprio nostro, che davvero ci appartiene.

(Bibius) …E infatti quali sono le cose che possiamo sul serio definire nostre se escludiamo il bere, il mangiare, il godersela? Non possiedo niente, né in campagna né in città. Compro e vendo vino. Ma dai, se fossi proprietario di grandi sostanze, con casa in città, terreni in campagna, il forziere colmo d’oro, cosa mai sarebbe davvero mio al di fuori di quello che posso mangiare e bere?

(Cetius) Spesso su queste cose, quando ne trovo il tempo, mi capita di riflettere. Passo in rassegna i vari modi di vivere: chi corre dietro alle armi, chi si fa bello con i libri, chi si dà arie per le sue ricchezze. Per me tutto questo non vale niente, dal momento che tanta luccicante rinomanza scompare con la morte dei rispettivi titolari.

(Lanius) Credete a me, compagni: mi sono spesso ripetuto, dentro di me, che niente è più degno dell’uomo, niente è più gradito a Dio, del fatto che la gente beva, mangi e se la goda, da buoni compagnoni, d’amore e d’accordo. Tutto il resto non conta nulla: per me, almeno (ma è senz’altro così).

(Bibius) E allora, compagni, beviamo, mangiamo e godiamocela.

 

da Catinia / Sicco Polenton – traduzione italiana, introduzione e note di Paolo Baldan

 

Anguillara Veneta

Storie di fantasmi

 

IL GORGO DELLA NOVIZZA

 

Sulla strada che dal Taglio porta verso Olmo si trova un laghetto chiamato, da tempi immemorabili, “el gorgo de la Nuissa” , cioè il lago della novizza, della sposa.

La leggenda narra dell’esistenza sul luogo di una chiesa, nella quale si doveva celebrare un matrimonio. La donna, “la novizza” che non desiderava prendere come marito l’uomo impostole dal padre, manifestò con rabbia e disperazione il desiderio di sprofondare nel sottosuolo, anziché sposare l’uomo che non amava. Come d’incanto si aprì una voragine che inghiottì gli sposi, gli invitati e la chiesa stessa, lasciando sul posto una fossa piena d’acqua detta appunto “Gorgo della Novizza”, cioè “il lago della sposa”. Ancora oggi, su quel luogo, si trova un laghetto di 15-20 metri, quasi nascosto da canne palustri. Questo lago sarebbe così profondo da non poter essere prosciugato e da non riuscire a toccarne il fondo.

 

Gorgo della Novizza… dove notturnamente se suole sentire soni, canti, strepiti et vedere fantasme che mettono terrore dando percosse anco tall’ora ad alcuni…”

 

 

Anguillara Veneta

Storie di briganti

 

IL BANDITO LUPARO

 

La sua capanna si trovava ai confini di Conselve, ed era diventata un luogo di paura e mistero.

La gente del posto l’aveva battezzato Luparo. Usciva di notte e terrorizzava la popolazione, impoverita da una recente inondazione dell’Adige e dalle continue scorrerie dei signorotti invasori. Tanti avevano cercato di avvicinarsi  al suo rifugio ma non erano più tornati, scomparsi chissà come!

Albertino da Carrara, signore di Conselve, aveva posto una taglia sulla sua testa: vivo o morto il Luparo doveva essere acciuffato.

In casa di Quirino, uomo esperto in questo genere di imprese, si tenne una riunione e si decise che l’operazione di cattura si sarebbe attuata all’alba del giorno dopo. I cinque uomini, armati fino ai denti, avrebbero portato tele e grosse funi per la cattura.

Il cammino per la campagna, lento e guardingo, durò per circa un’ora. Un silenzio profondo regnava attorno alla capanna ma di banditi neppure l’ombra. Ad ogni fruscio di foglie… che spavento!

“Ma questa è la ruota del mio carro…”. “Quella è la secchia del mio pozzo!”. Ognuno trovò qualcosa di suo. “Non toccate nulla, lasciate ogni cosa al suo posto e fate silenzio!” disse Quirino.

Una specie di lamento, un pianto di dolore e di paura proveniva dalla capanna. Tutti provarono un brivido. “Fermi, è una trappola! Guardate quei coltelli appesi sopra l’uscio e quel falso gradino all’ingresso!” “Maledetto diavolaccio!”. All’improvviso si udì un fracasso tremendo e delle urla disperate: gli amici di Quirino erano precipitati in una voragine profondissima. Quando il feroce bandito uscì, non si aspettava che Quirino gli saltasse sulle spalle, lo colpisse con la spada e lo facesse precipitare a sua volta nella fossa. Sistemato il Luparo, Quirino con una fune trasse in salvo gli amici e distrusse la capanna.

 

Tratto da una storia di Alcide Salmaso

 

 

Conselve

BAGNOLI

 

Bagnoli xe un logheto cussì belo,

Cussì ben fato, e pien de simetria,

Che poeta no gh’è, no gh’è penelo,

Che ve possa mostrar cossa lu sia.

Nol par minga una vila, ma un castelo;

Una contea, o qualche signoria.

Chi no crede sta roba vegna qua,

Che come ogn’altro, el resterà incantà.

 

L. Pastò, El Marcà de Bagnoli, 1788

 

Bagnoli di Sopra

L’assedio del castello

 

Il “Castello dei Carraresi” secondo le antiche mappe, si trovava giù per quella stradina dopo la chiesa, sulla sinistra. Per anni su queste terre ha comandato il feroce Ezzelino III° da Romano, luogotenente del famoso Imperatore Federico II°, detto Il Barbarossa, che ha regnato dopo il 1200. Questo Ezzelino, oltre a fare gli interessi del suo padrone, ancora di più faceva i suoi. Per farla breve, fra tutte le scorribande, i saccheggi, le barbarie e gli incendi che ha fatto con il suo esercito, ce l’aveva più che altro con i cani grossi, perché – era anche intelligente – da questi trovava più cose da rubare. L’episodio più noto tra le varie crudeltà commesse da Ezzelino si svolge ad Agna nel 1241. Si tratta di una spedizione punitiva contro una delle più importanti personalità padovane del tempo, Jacopo da Carrara, il quale aveva ad Agna il suo castello. Nel mese di agosto dell’anno 1241, Tebaldo Francesco, Podestà di Padova, su ordine di Ezzelino, una sera partì in segreto da Padova con circa duemila fanti e duecento cavalli e sul far del giorno arrivò ad Agna, dove Jacopo da Carrara viveva nel suo castello con tutta la famiglia. Dopo un lungo assedio, il castello fu preso e incendiato. Durante l’assalto molte nobildonne con i loro averi, volendo fuggire salirono su una piccola imbarcazione nei pressi del castello ed, essendo troppo carica, affondarono nel lago e annegarono tutte. Jacopo, condotto a Padova, coperto da un abito nero, come era usanza far indossare ai ribelli nei confronti dell’imperatore, fu ucciso sul ponte di San Giovanni e sepolto nella Chiesa di San Giovanni.

 

Tratto da storie raccolte da Gino Mantoan

 

Agna

Il circo

 

In Piazza arrivava il circo, con i ballerini, la giostra tirata dal cavallo, il tiro al bersaglio, il cinema muto. I ballerini prima di cominciare lo spettacolo, andavano con una carrozza per le contrade del paese a suonare gli strumenti a fiato e dopo, col megafono, annunciavano il programma della serata. Il cinema invece suonava al ritmo del grammofono e dei dischi di canzoni. Gli attori si travestivano in fantastici personaggi, le vie si animavano di bancarelle di giocattoli, di paste e dei gelatai, dei fruttivendoli, delle persone.

 

Agna

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